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venerdì 6 luglio 2012

Le Cronache di Darkon - Prologo


Il vento le gridava nelle orecchie. Il cielo era cupo, minaccioso. Le nuvole si rincorrevano rabbiosamente, mentre alcuni sparuti gabbiani volteggiavano indecisi sul da farsi per poi planare sull’enorme specchio d’acqua nera sottostante.

Giocherellò un po’ con i lunghi capelli lisciandoseli e raccogliendoli in un’improbabile coda, poi si sistemò nervosamente con un tocco leggero gli occhiali da presbite che portava con elegante disinvoltura. Infine, intirizzita per il freddo che le saliva per le gambe nude attraverso lo spacco del lungo spolverino beige, si infilò le mani nelle tasche e s’irrigidì, cercando di trattenere un po’ di calore. Era ipnotizzata dallo splendido verde intenso del prato che contrastava con il triste grigiore delle rocce del dirupo e con il nero mortale degli scogli che affioravano aguzzi, taglienti e terribili. Il sole era oscurato, eppure l’erba sembrava brillare con incredibile vitalità: ogni singolo stelo ondeggiava soffice al vento, catturando la sua attenzione.

«Così questo posto ti fa pensare a casa!» Urlò per paura di non essere udita per via dell’imminente temporale. Nessuna risposta. Si riassettò il colletto dell’impermeabile per proteggere meglio l’esile collo da eventuali colpi d’aria. Poi si dondolò avanti e indietro sui piedi: sulle punte delle dita, poi sui talloni. Sulle dita infreddolite, poi sui talloni ormai insensibili. Ancora e ancora. Con un certo ritmo. Lentamente.

«E’ già arrivato il mio turno?» gridò nuovamente.

Ancora silenzio.

Si girò quel tanto che le bastò per guardarlo meglio. Era stata addestrata nelle migliori accademie, sapeva cosa aspettarsi da lui. Se si fosse mosso per avvicinarla, avrebbe reagito e non l’avrebbe lasciato fare, come con tutte le altre. Vittime, pensò. Ecco cosa siamo diventate agli occhi della gente. Semplicemente le vittime di un folle maniaco sadico e squilibrato. Eppure non doveva andare in questo modo. Da come mi guarda so che mi odia. Percepisco chiaramente la sua furia omicida. Dio mio, cosa abbiamo fatto…

Guardò tristemente l’orizzonte limitato da una scura linea spessa e nera. Il profondo suono in lontananza della sirena di un peschereccio la ridestò. Ebbe paura. Sentì il suo fiato caldo e soffocante vicino ad un orecchio, mentre una mano le si insinuava decisa nell’impermeabile.

Non la spaventava sapere che tra breve sarebbe morta, ma il dolore, oh, quello sì, lo temeva. Sapeva che sarebbe stato molto doloroso. Sperava solo che durasse il meno possibile. Una lacrima le solcò il viso.

















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