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giovedì 1 aprile 2010

LACRIME D'ACCIAIO

L’enorme maglio d’acciaio si liberò dalla terra in cui si era conficcato cigolando ed emettendo un sinistro rumore metallico. Si strinse in un minaccioso pugno con un clangore di metallo che artigliava altro metallo. Uno scudo si accartocciò nella morsa. Del sangue ancora fresco, misto a terra, fango e altri detriti, scivolò via ad un preciso gesto di leggera torsione. La silente e minacciosa figura scura si erse in tutta la sua tenebrosa arroganza, in un eloquente gesto di sfida: tutto intorno, il silenzio.

Un nugolo di frecce squarciò il nero cielo stellato, piovendo all’unisono con un sinistro sibilo ronzante, invisibile e mortale, ma l’impatto col bersaglio designato non avvenne: una giallognola aura luminosa, tenue ma più solida di un’armatura di cuoio, circondava e proteggeva l’implacabile abominio metallico. Non che ne avesse bisogno, ormai era chiaro, niente sembrava scalfirlo; quell’ennesima diavoleria, quella barriera “magica” che lo avvolgeva, pareva più l’ostentazione di un potere superiore che non poteva che far presagire nulla di buono. Sarebbero stati tutti sterminati, dal primo all’ultimo: senza la possibilità di difendersi, senza la capacità di poter reagire in alcun modo. Senza pietà…
Nella notte stellata si faceva fatica a distinguere ciò che circondava l’ombra, più scura delle stesse tenebre in cui era immersa. Il suo unico occhio azzurro, splendido e brillante come la prima e la più luminosa delle stelle apparse, guardò quasi compiaciuto il macabro spettacolo. Ovunque corpi straziati, mutilati, carne ancora sanguinolenta e già putrida; si poteva udire impercettibilmente il lamento agonizzante di qualche sprovveduto, che avrebbe fatto meglio a morire subito per non trasformarsi nel delizioso dessert di quel raccapricciante banchetto.

Né il debole vento che si levò, né l’odore nauseabondo che cercavano di sopraffarlo, infastidirono in alcun modo la macchina di distruzione che implacabile aveva incrociato la strada di quegli strani esseri fatti di pelle, ossa, tendini, carne. Una bandiera garriva placidamente al vento e qualcosa tintinnava con fastidiosa insistenza. Forse un’arma… Quale scherzo della natura sono questi miseri esseri umani? Pure il più insignificante degli insetti possiede un carapace di protezione anziché un inutile esoscheletro interno!
Rimase immobile ancora per qualche istante mentre analizzava la situazione e le curiose creature con cui ultimamente continuava ad imbattersi, senza preoccuparsi minimamente del tempo che inesorabile scorreva, forse l’unico suo degno avversario in quel momento, impossibile da sconfiggere tanto quanto lui; mosse un primo passo avanzando verso il bosco che intravedeva dalla parte opposta. La terra tremava e gemeva la suo passaggio; l’aria si condensava in vapore dal nauseabondo odore marcescente; volute di fumo finissimo volteggiavano spavalde in refoli caldi e miasmatici alle sue spalle. Avanzò lentamente per l’ormai desolata piana erbosa, che da verde brillante e immacolata com’era qualche attimo prima, ora era un mare rosso di sangue e anime perdute. Scostò con noncuranza un albero che gli ostruiva il passaggio, spezzandone il tronco, altrettanto distrattamente scalciò l’inerme corpo dilaniato di un cavallo da guerra che ancora scalciava nel vuoto, triste parodia di una vita che non voleva saperne di smettere di lottare pur avendo già perso in partenza. Cominciò poi a risalire con altrettanta indolenza il leggero pendio di una collinetta brulla e spoglia.
Infinite sequenze matematiche di complessi calcoli gli trasmisero una sensazione di sadico compiacimento: era forse questo strano stato logico quello che gli esseri umani chiamavano “emozione”? La sua Matrice Primaria non era al livello di quella di un Custode, ma in quel preciso istante, un Guardiano del suo livello cosa poteva dedurre? Dopo l’ennesima carneficina perpetrata per conseguire il Disegno Originale, la percezione superiore a cui per un attimo pensava di essere giunto, cosa significava? Ammesso naturalmente che tutto ciò avesse un significato. Era ancora troppo presto per fare un rapporto, anche perché il vero obbiettivo del suo risveglio doveva per forza essere un altro: eliminare ogni forma di vita senziente e non sul pianeta era troppo scontato e palese. Se i Creatori avevano dato vita a Gemini, al Sistema, se avevano donato loro una nuova esistenza e una nuova realtà che oltrepassava ogni più impensabile aspettativa, ebbene, un motivo doveva pur esserci, ma solo il Sommo Eklisse aveva tutte le risposte. Solo il Rinnegato dagli uomini aveva la conoscenza. Solo l’Abominio possedeva la Verità. E la sua venuta era ancora troppo lontana. Quindi, logica conclusione, bisognava continuare ad agire secondo istruzioni fino a nuovo ordine: portare morte e distruzione.

Giunto sulla sommità della collinetta si guardò attorno in cerca di nuovi avversari, se così si potevano definire quelle insulse creaturine, fragili, urlanti e fastidiose come il peggiore dei virus informatici, ma non ne trovò. Una casetta di modeste dimensioni, fatta interamente di pietre di ardesia e col tetto in legno e pagliericcio, dominava il panorama, mentre alle spalle della costruzione s’intravedeva come il terreno declinasse nuovamente in un leggero pendio, fino ad un bosco piuttosto esteso e fitto. Si udiva impercettibilmente, ma non troppo lontano, il gorgoglio di un corso d’acqua e il ritmo incessante della ruota di un mulino che macinava, mentre un approssimativo recinto, grezzo e spartano, circondava la tenuta, non troppo vasta. Un filo di fumo impalpabile fuoriusciva dalla canna fumaria posta al centro del tetto. Nel silenzio ovattato della notte, il frinire delle cicale faceva da macabra colonna sonora. Si avvicinò ulteriormente e si fermò nuovamente sulla soglia della porta, leggermente socchiusa.

La sua mole era tale da sovrastare di un metro abbondante il fatiscente edificio. Era tentato di distruggere tutto con un unico poderoso colpo del suo maglio, ma qualcosa lo fece desistere: curiosità?! Si inginocchiò. Appoggiò lievemente le dita uncinate del suo artiglio metallico e spinse. All’interno, nell’oscurità più assoluta, intravide i resti di un focolare che ormai si stava estinguendo. Non aveva fatto caso all’assenza di finestre o altre aperture nella costruzione, a parte naturalmente alla canna fumaria. Gli scoppiettii della brace che ancora resisteva attirarono la sua attenzione. Il suo unico occhio, come guidato da una volontà propria, si allungò in un viscido e snodato tentacolo che si insinuò all’interno della casetta, immergendosi nel buio. La esplorò completamente, memorizzando ogni dato possibile, registrando la presenza di un tavolo di pietra di media grandezza, un paio di sgabelli di legno dalla dubbia consistenza, un baule pieno di cianfrusaglie, un giaciglio di fieno ed infine, nei pressi del braciere, si fermò per studiare qualcosa d’inaspettato. In un cesto di vimini, avvolto in un panno morbido, una minuscola forma di vita si stava lentamente spegnendo. Faticava a respirare, si muoveva appena; la temperatura basale era bassa, al limite. Da quanto tempo quel cucciolo d’uomo era lì, a combattere solitario quella battaglia, silenziosa e ormai persa? Per quale motivo la natura era così spietata e non poneva fine alle sue sofferenze? Per fortuna del piccolo era arrivato lui, sommo giudice e voce della verità: l’estinzione della vita era un dogma; il perseguimento dell’obbiettivo l’unica possibilità.

Allungò un arto, seguendo lo stesso percorso indicato dal tentacolo oculare. Artigliò il cesto e con inaspettata delicatezza portò fuori dall’edificio il fagotto col neonato, ormai in fin di vita. Sarebbe stato così facile stritolarlo e poi osservare la carne mista a fluidi corporali imbrattargli il maglio. O sarebbe stato più interessante verificare qualche legge della fisica scagliando l’inerme malcapitato il più lontano possibile, con tutta la sua potenza? Fin dove sarebbe riuscito a lanciare quel peso così… inconsistente? Non fece niente di tutto ciò.

Rimase un tempo imprecisato a guardare l’esserino che nella sua tenaglia d’acciaio si ostinava a non morire. Neanche tutti quei soldati affrontati in precedenza avevano mostrato tanta tenacia. Nella sua banca dati aveva vaghe informazioni riguardo la fragilità e la precarietà dell’esistenza umana, che paragonata a quella dei “sintetici” era assolutamente futile e priva di valore. Non trovò nulla però che facesse pensare o anche solo immaginare che una così minuscola creatura, priva di qualunque difesa e possibilità, avesse la forza di “ammaliare” un essere superiore come lui. Che fosse un mutante?! Ma la loro comparsa era prevista solo fra un centinaio di anni, con l’avvento dei viaggi spaziali. Che fosse… un fruscio catturò la sua attenzione. Individuò subito la presenza dei nuovi intrusi. Possibile che si era distratto al punto da non aver prestato attenzione a tutti i segnali d’allarme? La molteplicità delle variabili intervenute avevano alterato la sua percezione spazio-temporale. Anche la “distrazione” che supponeva lo avesse momentaneamente scollegato dalla realtà circostante, indicava la messa in atto di un nuovo protocollo comportamentale fuori da ogni parametro conosciuto.

Mentre una parte del suo cervello elettronico elaborava la strategia migliore d’adottare, l’altra si crogiolava con la continua e astrusa attenzione focalizzata sul fagottino adagiato nel suo maglio. E per quanto riguardava i nuovi assalitori, tutti i sensori avevano dato un unico risultato.

Erano segugi di Traka.
Erano venuti dal Piano Zero. Quale insolenza! Impercettibili scariche elettrostatiche lo pervasero, creando in tutta la sua struttura una strana “sensazione”. E mentre continuava nell’analisi introspettiva della nuova iperbolica situazione che si era venuta a creare, l’arrogante ombra meccanica si era già preparata allo scontro ormai imminente. I segugi erano solo cinque, di grossa taglia, e si stavano aprendo a ventaglio per un attacco a tenaglia. Di solito operavano in branchi più numerosi, erano particolarmente bellicosi ed aggressivi, ma il capo branco ed il guarda muta dovevano sapere il fatto loro.
In quel momento c’erano solo le cinque bestie fameliche, con quel loro aspetto che ricordava l’incrocio mal riuscito tra viscidi serpenti e grossi cani. Il capo branco era sicuramente il più grosso, mentre probabilmente, chissà dove, il guarda muta era nascosto e si godeva tutta la scena a debita distanza. Avevano zampe sottili che parevano dure come acciaio e corpo smunto ma nerboruto. La testa era particolarmente appuntita e culminava in un lungo becco adunco e terribilmente aguzzo. Nell’oscurità gli occhi privi di pupille sembravano guardarlo con cattiveria e malizia. Come i corpi, erano di un disgustoso color melma, mentre lungo la spina dorsale un’ispida peluria rossiccia spiccava vistosamente, fremente d’eccitazione nell’attesa dello scontro ormai prossimo.
L’unico occhio guardò l’avvicinarsi indolente delle cinque bestie con tutto il suo freddo e meccanico distacco, ma dentro di sé, inaspettato, albergava qualcosa di nuovo. Fosse stato umano – ancora una volta si propose subdolamente questa considerazione – si sarebbe potuto crogiolare in quel “compiacimento”, sarebbe stato in procinto di godere di un appagamento che fino a quel momento non aveva ancora avuto. Aveva sterminato non sapeva più quanti mortali (in realtà il contatore del puntatore di bersagli indicava millenovecentonovantacinque) tutti in un paio di giorni, ma era stato sempre troppo facile, puro allenamento. Le battaglie con gli Evoluti, nel terzo millennio, prima dell’impatto delle Navi di Horus sulla Terra, quelli sì erano scontri memorabili. Tecnologia al servizio dell’uomo che si scontrava con tecnologia che dell’uomo non voleva saperne. Scontri fratricidi senza fine (anche per le macchine si potevano considerare tali?): sangue che imbrattava acciaio, metallo che si contorceva sotto i fuochi dei Purificatori. E ora? I Creatori avevano “erroneamente” dato loro la vita! La loro conoscenza superiore aveva mal interpretato alcuni segnali elettrici confondendoli con segnali vitali! La realtà dei Sintetici era una novità difficile da accettare…

La vita…Chi mi spiegherà in che cosa consiste? Cos’è cambiato? C’è solo, spesso, troppa confusione. Ogni analisi logica viene alterata da “sensazioni” che ancora vanno classificate, equilibrate, forse addirittura estirpate! Operare diventa un sommarsi di variabili con altre variabili in modo… Evitò una zampata, un primo assalto. …esponenziale. Evitò agilmente anche il secondo attacco. Sempre mentre teneva nel maglio destro il fagottino inerme, sempre mentre le sue riflessioni sembravano poterlo far giungere ad una qualche conclusione, ad una verità nascosta, paragonabile a quelle certezze assolute che fino a prima del risveglio erano proprio tali: verità assolute, certezze. Il tutto riassumibile con una sola parola: logica. Logica che si sta perdendo in un oblio senza fine…
L’affermazione interruppe qualcosa a livello circuitale. Mascelle dalla forza spropositata ne approfittarono per conficcarsi nella sua spalla sinistra. Con uno strattone se ne liberò. Con l’artiglio libero afferrò le zampe posteriori della bestiaccia che aveva osato tanto e quasi fosse un gioco che cominciava a dargli noia, la mulinò come una clava: prima a destra, poi a sinistra, ancora e ancora, sbattendola sul terreno erboso, a volte invece cercando di usare l’arma vivente per colpire gli altri assalitori. Lo scontro stava durando più del previsto, ma solo perché il guardiano meccanico non si stava impegnando abbastanza. Una rotazione dell’arto, più improvvisa delle altre, squarciò in due il corpo del segugio che, preso nella morsa, non aveva mai comunque smesso di divincolarsi. Solo una bestia era stata annichilita, costato sfondato, con quell’arma improvvisata.

I tre superstiti gli continuavano a saltare intorno, alternandosi, nel tentativo di azzannarlo o di farlo cadere, ma invano. Improvvisa, una luce accecante si sprigionò e centrò in pieno una delle tre creature, diffondendo all’istante nell’aria un persistente odore di carne bruciata. Un grosso blocco irriconoscibile, nero e duro come roccia, rotolò giù per il pendio erboso, verso il fitto bosco. Memento alla distruzione. Gli altri due segugi continuarono imperterriti nella loro tattica, come se niente fosse. E il verso che emettevano non era assolutamente paragonabile a niente che si potesse udire sul pianeta. Poteva ricordare vagamente il frinire delle cicale, ma era molto più delicato ed ipnotico, in contrasto col loro aspetto e la loro selvaggia ferocia. Nel Piano Zero, chi aveva avuto la sfortuna di udire quel richiamo era finito in una trappola mortale.


L’aver utilizzato un raggio disgregante gettò nello sconforto il gigante d’acciaio. Anche questa era una nuova realtà difficile da accettare. Non avrebbe voluto usare un’arma a distanza contro avversari che non ne possedevano. Non era una questione di onore, orgoglio, spirito cavalleresco o roba simile, quella la lasciava a quegli stolti umani che iniziavano ogni scontro con urla, boria e convinti dei propri mezzi, superbi e arroganti, ma soprattutto “carne da macello”. No, non era tutto questo. Semplicemente, lui godeva del contatto tra il suo duro acciaio temperato e la morbida carne delle sue vittime. Adorava dilaniare, spezzare, stritolare, squarciare. Si sentiva un artista del macello perpetrato per puro divertimento. Che sia questa la “vita”? é questo il dono che ci avete fatto?

In preda ad un topico raptus di follia megalomane non si accorse di aver stretto entrambi i magli, braccia protese al cielo notturno in un gesto di chiaro delirio di onnipotenza! Quando se ne rese conto lo colse un attimo di disorientamento. Evitò in automatico l’ennesimo assalto di un segugio. Al secondo, che cercò di addentarlo ad un braccio, con un pugno potente e preciso spaccò il cranio, dipingendo sul terreno un arazzo di sangue marcescente raffigurante la più astratta delle morti. L’ultimo segugio non tentennò nemmeno per un attimo e lo assalì a sua volta, ma fu afferrato al volo e spezzato in due lungo la spina dorsale, con un unico fluido e letale movimento.
Tornò il silenzio. In una pausa immensamente lunga.

Il cielo era nero. La luna si era nascosta alla vista. Una leggera brezza stava facendo disegnare nell’aria ai fumi che fuoriuscivano dalla canna fumaria della casetta una curiosa danza, silenziosa e soffice, irraggiungibile e incomprensibile: inopportuna. Un enorme maglio d’acciaio si liberò degli ultimi brandelli di carne sanguinolenta di cui si era imbrattato, cigolando ed emettendo il consueto e sinistro rumore metallico. Si strinse in un minaccioso pugno con un clangore di metallo che artigliava altro metallo. Si riaprì. Un singolo e brillante occhio azzurro cercò ed immaginò di focalizzarsi ancora sul fagottino che qualche attimo prima sembrava riprendersi in quel maglio socchiuso. L’artiglio era ancora leggermente caldo per il tepore che aveva sprigionato cercando di andare incontro alle esigenze vitali del piccolo umano. Ma fu solo un attimo. Subito il freddo metallo vivente del Guardiano ristabilì la corretta densità dell’artificiale struttura sintetica.
Riprese a camminare verso il fitto bosco, al di là della casetta, al di là dell’ennesima carneficina perpetrata, al di là di un ricordo ormai archiviato e catalogato che, fosse stato umano, gli avrebbe fatto forse comprendere finalmente cos’era quell’irrazionale stato logico-confusionale in cui si trovava in quel momento. Comprendendo davvero cosa vuol dire essere vivi, forse avrebbe versato le sue prime lacrime d’acciaio…

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1 commento:

Silvio Porrini ha detto...

Allora, che ne dite? é il primo racconto che avevo inviato per il concorso. Mia moglie dice che è un po' troppo splatter! E per i pochi che hanno già letto "Il Grande Fuoco", di sicuro avranno qualche seppur minima riminescienza... D'altronde mi sono in parte ispirato all'universo del romanzo, anche se il tutto c'entra relativamente. E il titolo del racconto? Non è casuale, anzi è quello del blog che è venuto a posteriori! Comunque, qualunque cosa ne pensiate, fatemelo sapere, please. Grazie per l'attenzione, raga!