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IL Grande Fuoco

Capitolo 1

Immerso completamente nella sua poltrona semivivente, il Legislatore Folken si godette compiaciuto tutta la scena ancora una volta. La diffidenza che aveva nei confronti dei politici in genere, non lasciava scampo: il modus operandi del Console Mayer, in particolare, lasciava a desiderare parecchio. Quanta inefficienza: non si era ancora accorto della microspia che subdolamente gli aveva fatto impiantare nel preparato chimico per quell’obbrobriosa tintura per capelli che avrebbe presto cominciato ad usare, seguendo l’ennesima astrusa moda del momento. Conosceva fin troppo bene i suoi punti deboli: la vanità e l’avidità. In chiunque avrebbe apprezzato quest’ultima, privandola di tutti quei connotati tipicamente negativi che la società era solita attribuirgli, associandola invece al semplice desiderio di maggiori potere e ricchezza. Ma la prima, la vanità, a cosa poteva portare? A nulla che a lui interessasse. Quindi, nel suo contorto ragionamento, già solo il fatto che un suo ignaro sottoposto lo fosse – sia stipendiato che vanitoso – sarebbe stato una nullità, l’ennesima pedina sacrificabile in un complesso piano ad incastri dove tutto doveva assolutamente e necessariamente combaciare come lui aveva da qualche tempo pianificato.
 
Logicamente anche il Maximus Inquisitor aspirava ad un potere assoluto che fino a quando Eklisse fosse esistito sarebbe stato impossibile da realizzare. Geneviève, la sua precog di 1ª classe, aveva previsto per Lui una longevità superiore alle aspettative e la vittoria sul Nemico. E ora che era in costante collegamento con addirittura altri quattro precog suoi pari, la ragazza aveva visioni sempre più nitide e precise. Solo ciclicamente, quando era nel periodo di massima fertilità, dimostrava una titubanza alquanto irritante. Una tale scocciatura…

Nella penombra dello stanzino segreto, dove soleva ritirarsi per riflettere e per controllare le sue ignare pedine, Folken era particolarmente eccitato. Le visioni di Geneviève, negli ultimi Cicli Solari non si erano scostati minimamente dal disegno originale, quindi il lento processo che lo avrebbe reso un dio vivente tra i mortali, proseguiva per un sentiero tortuoso ma sicuro. Sicuro perché fino a quel momento ogni previsione si era avverata; tortuoso perché alle lacune della ragazza lui doveva sopperire con il suo immenso ingegno e la sua logica senza pari. E spesso tutto questo lo sfiniva: il solito gioco della finta nella finta, senza poter avere attimi d’esitazione, d’incertezza. Tutto ciò era sfiancante, soprattutto per la consapevolezza di non dar sostanza a niente di nuovo, ma di ripercorrere semplicemente, con maniacale precisione e stressante dedizione, un percorso già prestabilito ed inalterabile.

Lo scorrere del tempo non poteva essere invertito, eppure, a volte avrebbe preferito essere il timido spettatore di ciò che doveva inevitabilmente essere. Ma no! Era impossibile anche solo pensarlo!

«L’uomo non può che sognare ed anelare a qualcosa di più grande di lui. È sempre stato così e così sarà per sempre. Amen.» Come poteva lui osare sottrarsi al suo destino? E non un destino qualunque! All’orizzonte si profilava una magnificenza senza eguali per generazioni e secoli a venire. Che importava di fronte a tutto ciò, davanti ad un futuro così grande ed inimitabile, il sacrificio di qualche sprovveduto? Un’unità dell’esercito ingaggiata dal Console Mayer per ordine diretto del Governo Centrale, si sarebbe imbarcato in una missione suicida; sarebbe stata decimata e il Lògon, fatto rinvenire tramite un mercante corrotto ad un insignificante sottoposto, sarebbe tornato in possesso del Nemico, com’era nell’accordo. La tregua andava ristabilita ad ogni costo entro la fine del 1995° ciclo solare, altrimenti non avrebbe potuto dire quante e quali discrepanze temporali si sarebbero generate alterando il suo splendido futuro. Ammesso che il futuro potesse essere cambiato. Ma non era lui il primo a non credere in una simile eresia?
 
Il suo pensiero fu disturbato da un cicalio che lo avvertiva di un’imminente visita che urgeva la sua presenza. Non ricordava bene l’ordine degli appuntamenti del giorno, ed associò irritato questa consapevolezza al sintomo di una stanchezza che cominciava a logorarlo, tanto nel fisico quanto nella mente. Si affrettò a raggiungere lo studio adibito al ricevimento degli ospiti. Non era una stanza molto ampia, poco più di trenta metri quadri, più larga che lunga: arredata in perfetto stile barocco, denotava un gusto tipicamente retrò e volto all’apprezzamento per le cose ormai superate e fuori moda. Nel Santuario tutti erano a conoscenza di questa sua unica debolezza, ma non potevano assolutamente immaginare che facesse parte di un suo piano congegnato decenni prima.

“Mostra il contrario di quello che non vuoi che gli altri vedano…” era una massima del suo pensiero che custodiva gelosamente. Un sorriso compiaciuto comparve sul volto raggrinzito ma falsamente bonario. Gli impercettibili solchi che gli percorrevano il viso mentivano sulla sua veneranda età e gli occhi particolarmente azzurri, lucidi e vispi, stonavano come rubini incastonati nel più vile dei metalli. Era Maximus Inquisitor da ben 69 Cicli Solari, e lo era diventato in età già avanzata. Cercare d’indovinarne i lustri era uno dei passatempi preferiti dei giovani postulanti della Città Millenaria.

Con un leggiadro movimento si sedette alla scrivania mettendosi in una posa di regale compostezza. La porta d’ingresso scivolò di lato e finalmente l’atteso ospite entrò. Riconoscendolo non mostrò particolari segni d’interessamento; anzi, simulò una sorpresa che da qualche tempo sapeva di dover mostrare ma di cui inizialmente non ricordava il motivo.

Orevak gli si parò innanzi in tutta la sua formidabile mole. Sembrava un immenso macigno dotato di gambe e braccia: solido, letale, duro come fosse di metallo vivente. Era la sua personale guardia del corpo, ed in quanto tale indossava una leggera tunica di tulle bianco trasparente sulla tuta nera da battaglia, impreziosita da una croce dorata finemente ricamata sul petto e sulla schiena. Il suo status sociale gli imponevano la rasatura completa del capo e la depilazione totale del corpo, ma il fatto che fosse albino, e quindi in qualcosa simile al suo protettore, gli davano il permesso di portare una lunga treccia, impreziosita da massicci anelli d’argento. Non era particolarmente bello da vedersi. Il suo volto squadrato ed arcigno mostrava i segni di scontri e violenze ripetute: guardandolo bene pareva di osservare una persona che faceva smorfie attraverso uno specchio rotto. In compenso, la sua dedizione, la sua fedeltà incrollabile, la sua naturale abilità per l’arte della guerra, la sua forza, ne facevano uno strumento utile ed indispensabile, da plasmare a proprio piacimento.

Lo accolse con una frase del rito conosciuto solo a loro: «Hai avuto modo di meditare sull’albero che cadendo non fa rumore?»

«Si, Maestro. Nessuno ode il rumore perché nessuno è presente. Però l’albero di rumore ne fa eccome, cadendo. Perché?!»

La solita domanda. Il solito modo che aveva di fare terminando un qualunque pensiero con una domanda. Ogni volta che si vedevano, il Legislatore gli formulava un quesito o un indovinello, giusto per tenerne allenato anche il cervello, oltre al fisico. Fino a quando non avesse trovato una risposta accettabile, Orevak non aveva diritto di proferir parola.

E non che le risposte che poi dava fossero sempre corrette. Tutt’altro! Il più delle volte i suoi erano astrusi ragionamenti campati in aria tanto per. Ma almeno mostrava di provarci, e questo gli bastava. E soprattutto lo teneva inchiodato su di un unico pensiero, mantenendolo vigile, lucido e pronto all’azione.

Ricordò il motivo di quella visita. Doveva allontanarlo da Marte per un incarico insolito ma d’importanza vitale, nel vero senso della parola. Geneviève aveva visto la sua morte per mano di un giovane che… doveva ancora nascere! Orevak doveva assolutamente eliminarne i genitori. Se non ci fosse riuscito, avrebbe eliminato il futuro bambino-killer.

Il problema era che i poteri visionari dei precog erano ancora troppo… vaghi. Non gli veniva la parola giusta ma era conscio che il pensiero che in quel momento aveva, quel dubbio che gli si stava insinuando nella testa, fosse giusto. E questo pur non riuscendo a capirne il motivo; per il semplice fatto, forse, che un vero motivo non c’era. La preveggenza di Geneviève era veramente affidabile? Se la risposta era sì, perché l’incertezza continuava a perseguitarlo? Se era no, perché non prendere provvedimenti da subito?

Guardò Orevak che muto e silente se ne stava di fronte a lui come una statua greca: impettito e pieno d’orgoglio, se ne stava immobile nell’attesa di una risposta. Anzi no! Di un nuovo indovinello! Perché questo era il loro tacito modo di interagire: se non c’era un suo preciso ordine, c’era un nuovo gioco di parole. Folken esitò un attimo non ricordando se nella visione di Geneviève impartiva prima l’ordine e poi gli poneva il nuovo enigma esistenziale o viceversa. Invertire due frasi per una sua dimenticanza, avrebbe forse cambiato qualcosa? La giornata sembrava non promettere nulla di buono: troppe esitazioni, troppe incertezze.

Orevak attendeva senza dar segni d’impazienza o altro. La disciplina e l’autocontrollo erano solo alcuni dei principi cardine su cui si basava la vita nella Città Millenaria. Il giovane ragazzo, in quel momento, poteva provare qualunque emozione possibile, ma il suo volto ed il suo corpo non lo avrebbero tradito. Ah, se fosse tutto così semplice sempre e comunque. Lui era la massima autorità, l’esempio supremo. L’ispirazione suprema. Eppure, in quel momento, trovava difficile simulare stupore, l’atteggiamento dovuto ed imposto dalla visione. Avrebbe dovuto dare maggiore importanza anche a questa piccola sfaccettatura del complicato sbrogliarsi di un bandolo della matassa che sembrava non avere mai fine. L’idea di un gomitolo di lana lo fece sorridere. Il sorriso forse era la giusta espressione da tenere, il giusto atteggiamento?! Sorvolò sulla possibilità di soffermarsi anche su questa fuorviante considerazione.

«Orevak, Divin Fanciullo. L’oscurità ti protegga come tu proteggi l’eterna luce. La forza in te scorra, come tu l’eterno riposo elargisci. Ebbene, è arrivato il grande giorno. Lascerai la Città Millenaria prima della nuova rivoluzione del nostro mondo. Il pianeta rosso ti onora e attenderà trepidante il tuo ritorno. La missione che ti affido è d’estrema importanza. Dalla sua riuscita dipende...» Urla concitate provenienti dal corridoio esterno lo interruppero.

Quando la porta d’ingresso si aprì, senza preavviso, Folken vide entrare due guardie trafelate e del tutto inopportune. Se avesse potuto le avrebbe incenerite all’istante con il più truce degli sguardi, ma Orevak, più leggero di una piuma soffiata via dal vento, lo aveva preceduto. In un batter di ciglia, uno dei due si accasciò senza comprenderne il motivo, mentre l’altro fu salvo solo grazie all’intervento tempestivo del Maestro.

«Orevak! No!»

Una mano stretta a tenaglia allentò la presa sull’esile collo dell’incosciente intruso, mentre nell’altra, un cuore ancora caldo e palpitante si stava lentamente spegnendo, sussultando e cercando inutilmente di pulsare sangue che ormai non c’era più.

L’odore della morte intrise velocemente la stanza, mentre il Legislatore, mestamente, dovette convenire che nonostante avesse rivissuto più volte quel momento, la scena si dimostrava sempre di un’infinita tristezza. Un’altra vittima innocente lungo il cammino che inevitabilmente mi porterà alla gloria: tutto ciò è necessario, l’ho già visto come tale. Intrecciando le mani sembrò porsi nell’atteggiamento giusto per onorare il caduto sconosciuto, ma in realtà stava solo cercando di riordinare le idee. Cosa doveva dire? Ah, sì. Ora ricordava: «Spero che il sangue versato valga la vostra ancora ingiustificata maleducazione.» Disse con tono perentorio.

La guardia, tremante, guardava terrorizzato ed impaurito come la più indifesa delle creature al mondo, prima Orevak, che con uno sguardo glaciale sembrava vedere già oltre la sua persona, come avesse ormai decretato la sua inesistenza in quel piano materiale, poi il Maximus Inquisitor, cercando però di tenere basso lo sguardo, che, sfuggevole, ormai non riusciva più a padroneggiare.

«Mio Signore...» balbettò. Involontariamente si accarezzò il collo che ancora gli doleva. Quella paurosa sensazione di soffocamento non lo avrebbe mai più abbandonato. Nessuno dei due cambiò atteggiamento nei suoi confronti. Un segnale più che preciso. Riprese subito, senza perdere altro tempo.

«Mio Signore, nella Stanza dello Spirito… Vurkan e Rowinne…» si pietrificò notando uno strano luccichio negli occhi del Legislatore, che sentendo pronunciare quei nomi si era lentamente alzato in piedi. L’intruso fece per continuare, ma il vegliardo lo zittì con un cenno della mano.

«Orevak…» mormorò appena percettibilmente. Non occorse aggiungere altro. Un batter di ciglia ed era già tutto finito. Folken si risedette con estrema calma, come se niente fosse accaduto, poi comunicò l’ordine esatto nei tempi e con le modalità conosciute. Il tutto durò pochi istanti, anche perché, per sicurezza, il Legislatore aveva utilizzato la procedura che assicurava una registrazione mnemonica ad imprinting diretto.

Da quel momento, per Orevak fu come se fosse sempre stato informato di tutto quanto. Non era esattamente ciò che si aspettava, però doveva andar bene lo stesso. Si prostrò con riverenza al suo Maestro, poi se ne uscì frettolosamente, senza neanche degnare di uno sguardo i nano-robot che stavano alacremente ripulendo il pavimento.

Nuovamente solo con i propri pensieri, il Maximus Inquisitor non poté fare a meno di cercare di ricordare se anche nella visione di Geneviève, Orevak aveva quella sadica espressione sul viso. Quel suo diabolico compiacimento aveva catturato la sua attenzione. Più tardi avrebbe rivisto i nastri. Ora, senza indugiare oltre, aveva urgenza di recarsi alla Stanza dello Spirito.