Pagine

martedì 17 luglio 2012

Lacrime d'acciaio - Prologo


Ormai non sapeva più quante volte si era svegliato con quell’angoscia nel cuore. Anzi, non riusciva a capire se ancora possedeva un cuore. Non vedeva nulla, solo una profonda ed infinita oscurità senza fine; gli occhi gli pizzicavano, gli bruciavano. Curiosamente, sentiva come se nel medesimo istante gli stessero conficcando nelle orbite due tizzoni ardenti e due pali di ghiaccio. E la fronte gli doleva, manco gli avessero piantato rudemente un grosso chiodo nel cranio. La sensazione era troppo strana ma certamente insostenibile. E quando si rendeva conto di essere sveglio, senza sapere cosa gli stessero facendo, la cosa peggiore era capacitarsi di come tutto ciò continuasse da un tempo che ormai non sapeva e non voleva più ricordare.

E poi era solo… così solo… La solitudine era ciò che lo angosciava ancora di più. Non riusciva a comunicare in nessun modo la sua frustrante situazione. Terrore, rabbia, rancore, dolore, rassegnazione. Questo era diventato il suo mondo. Privo della capacità di vedere, parlare, toccare, udire, assaporare o quant’altro, Mad Shark viveva solo per odiare chi o cosa lo stava privando di una vita degna di essere considerata tale.

MA UN GIORNO MI VENDICHERO’, LO GIURO!

Il suo unico pensiero ricorrente, che pareva essere intriso di una logica che non poteva dare scampo, era quella certezza: la possibilità di vendicarsi e distruggere chi lo aveva messo in quell’assurda non-vita che non meritava assolutamente.

L’ennesimo progetto di vendetta fu interrotto dal sottile ma fastidioso ago, o almeno così immaginava ciò che stava cercando di violare nuovamente i suoi pensieri, che s’insinuò dolorosamente nella sua mente. Penetrava sempre in profondità, senza preoccuparsi minimamente del dolore che gli procurava. Pensava di vederlo mentre piano piano, con noncuranza, s’infilava nel suo cervello scoperchiato e lasciato a marcire all’aria, come fosse la disgustosa frattaglia lasciata sul bancone di un qualunque macellaio di una qualunque colonia esterna d’infimo ordine. Fantasticava e divagava, per non sentire quanto male facesse, come se tutto ciò accadesse al corpo di qualcun’altro. Non voleva vedere la propria carne straziata, ma la immaginava proprio così: un corpo umano informe e al limite della sopportazione, sgraziato da vedersi, deturpato ed imbrattato di sangue, sezionato e maltrattato senza degnarlo di un minimo di rispetto.

Questo’ultimo pensiero lo fece pensare a Dio. Dio mio, perché permetti tutto questo? Forse perché non ho mai creduto nella tua esistenza? Va bene. ORA CI CREDO! Adesso puoi farli smettere. Mi senti?! Puoi farli smettere! Fermali! Ferma tutto questo! Fa troppo male, lo sai? Sì, lo sai… e ora ci credo... Ci credo eccome… se esiste tutto questo dolore non può non esistere anche qualcosa di più grande e… meraviglioso. Tutto quello che vuoi… ti prego… ma falli smettere… falli smettere…

Falli smettere… falli smettere…

La litania non aveva mai fine…

Non poteva chiudere gli occhi perché non sapeva se possedeva ancora delle palpebre. Non poteva piangere perché era convinto di non avere più lacrime da versare. L’amarezza per uno scoramento senza fine ed il dolore sarebbero per sempre rimasti la sua unica verità. Non c’era una domanda che si poneva con crudo realismo, ma una sicurezza ed una certezza che non lasciavano alternative.

Fu così che in un particolare momento, improvviso, nel buio del suo oscuro mondo fatto d’impossibilità di percezione, un puntino luminoso cominciò a pulsare. Prima debolmente, poi con maggiore intensità. E cresceva, cresceva, cresceva a velocità impressionante. Gli faceva male, però era notevolmente preferibile a tutte quelle tonalità di nero e oscurità che sembravano accavallarsi senza fine. Un nero su nero che non dava scampo. Questa era una luminosità che infondeva calore e bruciava, come un grande fuoco inestinguibile. Il fuoco di una fenice che risorge a nuova vita… che strano paragone… un giorno diventerò anch’io una fenice? Anch’io diventerò come il fuoco? Anch’io risorgerò?

Quando l’esplosione di luce lo abbagliò lasciandolo senza la possibilità di pensare o ragionare, si accorse della piacevole sensazione di quiete che scaturiva da quel meraviglioso fenomeno che lo stava avvolgendo e… consolando? È questo che stava facendo? Che dolce sensazione… crogiolandosi in quel tepore inaspettato Mad Shark si rese conto che ormai, inconsciamente, si era abituato al freddo e al gelo che sentiva o immaginava di provare nel suo mondo fatto di tormenti e privazioni.

«E ora, figli miei, sacrificatevi, affinché vostro padre ritorni nella gloria.» Una voce lo scosse profondamente.

Sei tu, Dio? Sentì scaturire l’idea nel proprio pensiero.

La voce lo aveva assalito con prepotenza. Un’immagine, un ricordo, lo investì con violenza…

martedì 10 luglio 2012

L'Autore di Ricordi - Capitolo Primo


Anche quel viaggio sarebbe terminato. A forza di leggere e ascoltare musica. al costo di concludere il libro che da più di un mese pareva dimenticato sulla scrivania del suo studio. Oppure costringendosi a riascoltare ciclicamente i medesimi pezzi con l'accortezza ottusa di saltare sempre quelli che al primo ascolto non sembravano dare emozioni.
Il viaggio, come i pochi precedenti, e come quelli di quando era ragazzo, si sarebbe concluso senza drammi, e con una naturale stanchezza che era necessaria sopportare ogni volta, insieme ad un sospeso senso di tristezza e paura. Ma Mario queste sensazioni se le portava appresso, in ogni posto, come fardello nell'anima, ma stavolta anche come malinconica ombra negli occhi. Questo peso sembrava subirlo più fortemente di sempre perchè diretto nei luoghi del suo passato.
Adesso lo separava da quei posti nè semplicemente il tanto tempo trascorso lontano dal suo paese d'origine, nè soltanto la sua nuova vita ormai già più vecchia, di quasi dodici anni, dall'ultima volta che vi aveva messo piede. Lo separava il suo nuovo modo di essere che per lui era inconciliabile con quello che egli stesso era stato e che gli pareva irrecuperabile, perso per sempre.
Per questo aveva paura d'incontrarsi nel rivedere gli altri e ne soffriva perchè immaginava di non poter provare i medesimi sentimenti di allora, di non riuscire ad avere la capacità di emozionarsi per cose semplici, come gli succedeva normalmente non più di dodici anni prima.
Il Mario di oggi aveva perso la linfa dei sogni, la tenerezza del cuore, la meravigliosa felicità di riempirsi di sole. Adesso preferiva il silenzio, la sera che inghiotte i suoni e le luci, che acceca i sorrisi, il formalismo del dare del "lei".
Era cambiato notevolmente, e soprattutto negli ultimi tempi, volgendo il suo carattere, comunque da sempre incline all'introspezione, ad uno stato di apparente apatia, assumendo un aspetto distrattoe assorto in chissà quali elucubrazioni interiori. Gli sembrò sconosciuto anche il vecchio libro di poesie che aveva nascosto nella sua prima borsa in pelle e che aveva ricevuto in regalo dai suoi amici, per il suo arrivederci, in un piovoso e stanco venerdì di marzo...

venerdì 6 luglio 2012

Le Cronache di Darkon - Prologo


Il vento le gridava nelle orecchie. Il cielo era cupo, minaccioso. Le nuvole si rincorrevano rabbiosamente, mentre alcuni sparuti gabbiani volteggiavano indecisi sul da farsi per poi planare sull’enorme specchio d’acqua nera sottostante.

Giocherellò un po’ con i lunghi capelli lisciandoseli e raccogliendoli in un’improbabile coda, poi si sistemò nervosamente con un tocco leggero gli occhiali da presbite che portava con elegante disinvoltura. Infine, intirizzita per il freddo che le saliva per le gambe nude attraverso lo spacco del lungo spolverino beige, si infilò le mani nelle tasche e s’irrigidì, cercando di trattenere un po’ di calore. Era ipnotizzata dallo splendido verde intenso del prato che contrastava con il triste grigiore delle rocce del dirupo e con il nero mortale degli scogli che affioravano aguzzi, taglienti e terribili. Il sole era oscurato, eppure l’erba sembrava brillare con incredibile vitalità: ogni singolo stelo ondeggiava soffice al vento, catturando la sua attenzione.

«Così questo posto ti fa pensare a casa!» Urlò per paura di non essere udita per via dell’imminente temporale. Nessuna risposta. Si riassettò il colletto dell’impermeabile per proteggere meglio l’esile collo da eventuali colpi d’aria. Poi si dondolò avanti e indietro sui piedi: sulle punte delle dita, poi sui talloni. Sulle dita infreddolite, poi sui talloni ormai insensibili. Ancora e ancora. Con un certo ritmo. Lentamente.

«E’ già arrivato il mio turno?» gridò nuovamente.

Ancora silenzio.

Si girò quel tanto che le bastò per guardarlo meglio. Era stata addestrata nelle migliori accademie, sapeva cosa aspettarsi da lui. Se si fosse mosso per avvicinarla, avrebbe reagito e non l’avrebbe lasciato fare, come con tutte le altre. Vittime, pensò. Ecco cosa siamo diventate agli occhi della gente. Semplicemente le vittime di un folle maniaco sadico e squilibrato. Eppure non doveva andare in questo modo. Da come mi guarda so che mi odia. Percepisco chiaramente la sua furia omicida. Dio mio, cosa abbiamo fatto…

Guardò tristemente l’orizzonte limitato da una scura linea spessa e nera. Il profondo suono in lontananza della sirena di un peschereccio la ridestò. Ebbe paura. Sentì il suo fiato caldo e soffocante vicino ad un orecchio, mentre una mano le si insinuava decisa nell’impermeabile.

Non la spaventava sapere che tra breve sarebbe morta, ma il dolore, oh, quello sì, lo temeva. Sapeva che sarebbe stato molto doloroso. Sperava solo che durasse il meno possibile. Una lacrima le solcò il viso.