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venerdì 30 aprile 2010

Eppur si muove...

Finalmente il weekend. Non so voi, ma quando arriva la bella stagione (sì, sì, forse sto esagerando, ma ormai ci siamo, vero? Tutti 'sti calabroni in giro lo dimostrano!) il tempo prende un'impennata pazzesca! D'altronde, con le giornate che si allungano, la voglia di starsene fuori con gli amici cresce di pari passo. E l'implacabile scorrere del tempo (che ricordo NON BASTA MAI!) può essere ingannato "anticipando" i fuggenti e goderecci attimi che uno giustamente merita e si aspetta. Cosa intendo? Beh, tanto per fare un esempio, ora che arriva maggio le serate out anzichè al venerdì inizieranno il mercoledì (visto l'età, almeno due giorni per ripigliarsi ci vogliono... SCHERZO! OH!) Comunque, oggi mi sento proprio bene, tanto fisicamente quanto mentalmente (e tenendo conto della mia follia patologica...). Sono appena tornato dalla mia bella corsetta, sollevato un po' di ferro, mo mi sparo una macedonia o un succo e intanto... intanto mi rigiro tra le mani un disegno che ho fatto, prima di uscire, ispirato da un sogno da cui mi son svegliato malvolentieri. A sua volta forse ispirato da un piacevole incontro fatto l'altro ieri (in poche parole, pronta nuova idea per una nuova saga con personaggi allucinanti!). Ma non voglio già divagare ulteriormente, devo-restare-fedele-all'idea-iniziale... fiuuu. Forse ce la fo. Scusate, ma lo gnometto, non capisco mai cosa dice e forse ci sta rinunciando anche lui, mi stava tirando per la manica. Dai gesti direi che ha sete o fame o non so, boh? Dato che l'ho scorazzato per il paese, correndo, non dovrebbe essere tanto più affaticato del sottoscritto, o sbaglio? LASCIAMI STARE, OH! Ecco, mo fa l'offeso, ma mica se ne scende dalla mia spalla, nè? Bravo, bravo, zitto e mosca! Che poi cosa vuol dire? Le mosche son così fastidiose... SETE! Passo e chiudo. Per ora...

martedì 27 aprile 2010

Sogno o son desto?

Avete presente quando aspettate tanto una cosa con una certa trepidazione e quando arriva, PUFF, non sapete come prenderla, cosa dire e cosa pensare? Nel primo weekend di Maggio sarebbe scaduto il tempo ultimo per sapere se Il Grande Fuoco avrebbe suscitato l'interesse di alcuni addetti al lavoro che in questo periodo stanno bersagliando di pubblicità reti ben note al pubblico. Vi risparmio la solita manfrina relativa al libro, se volete farvi del male e vedere ancora una volta cosa ne penso rileggetevi i vecchi post inerenti; ci tengo a precisare che c'era una certa sorta di sommessa curiosità per vedere cosa se ne poteva ricavare. Insomma, per farla breve, ieri stavo tranquillamente spadellando per il pranzo (non ve l'ho mai detto? Adoro mettermi ai fornelli!) quando arriva mia moglie con la posta. Tra le varie bollette e i tantissimi depliant di supermarket vari, un misterioso plico piuttosto voluminoso faceva bella mostra di sè, catturando tutta la nostra attenzione (mia, di mia moglie, e del solito gnometto scontroso). Dall'intestazione ho capito subito di cosa si trattava, o almeno credevo, ma fino all'ultimo ho cercato di vincere la tentazione di sbranarne il contenuto. Ci ha provato la mia fida donzella, a cui poi ho strappato la busta dopo un'estrema lotta! Ebbene... C'era dentro della pubblicità: ok. C'era un bel dvd, che tra l'altro devo ancora guardare: ok. Dulcis in fondo... C'è un contratto (tempo al presente volutamente imposto)... UN CONTRATTO! In duplice copia, in tre pagine, con tante di quelle clausole che uno si potrebbe anche aspettare ma alla fine dice "ma che cavolo?!"  Naturalmente ci son stati attimi di panico collettivo, ma il tutto si è risolto con un perplesso atteggiamento di tutto il trio (mio, di mia moglie e dello gnometto inpertinente). Perchè? Perchè al solito come ho già avuto modo di verificare ogni casa editrice agisce alla propria maniera, e SEMPRE innanzitutto nei propri interessi. Mi si dice che "l'opera che ho inviato in esame ha ben impressionato, di qui la convinzione che il mio lavoro sia pronto  ad entrare nel loro progetto di pubblicazione e lancio di nuovi autori". Bene! Peccato che mi si chieda di contribuire con una somma economica relativamente non indifferente. Non sono i primi a fare una simile proposta, così come non saranno neanche gli ultimi, ma da una casa editrice così grossa mi aspettavo ben altro comportamento. E la mia delusione, più che altro riguarda la solita domanda che inevitabilmente uno si pone: ma il libro l'hanno letto o semplicemente cercano di irretire la gente con false promesse? E non mi si venga a dire che in passato alcuni grandi scrittori si autofinanziarono le loro prime opere! Non sto dicendo che la cosa sia giusta o meno, ma semplicemente si chiede maggior correttezza. E comunque, se la cifra fosse stata un'altra, forse avrei pure accettato, PRRRRRR (pernacchia!)

venerdì 16 aprile 2010

CORNI E PECC 2010!

Mitico! Torna una delle sagre più attese! L'anno scorso me la sono persa, ma quest'anno non voglio assolutamente mancare. Nuova location in quel dei cortili di Cittiglio (per chi non lo sapesse è in provincia di Varès), m'immagino già a passeggiare con gli amici allegramente (prima da sobri, poi leggermente carburati) passando da un manicaretto all'altro: e brave le nostre caprette! E come al solito ci saranno i banchi gastronomici a cui "attingere" gustosissimi prodotti caserecci, che vi assicuro vale la pena acquistare. Insomma, sarà una gran giornata! Le date? Inizia venerdì 28 maggio alle 00:00 e si conclude domenica 30 alle 00:00, ma per maggiori info guardate il sito www.corniepecc.it, anche se al momento vi troverete info sulle vecchie edizioni, ma almeno ve ne farete un'idea. Quindi che dite: andiamo tutti quanti a "belare" insieme? Sì, sì, porto anche te, e poi come farei visto che non mi molli un attimo! Gnometto goloso... 

venerdì 2 aprile 2010

IL CUORE NERO DELLA GIUSTIZIA

Non era buio. Una debole lama di luce fendeva l’oscurità della stanza dove infinite tonalità di nero si sovrapponevano per impedirgli di vedere chiaramente. E standosene con gli occhi chiusi, in silenzio e completamente rapito dai suoi pensieri, ciò che meno poteva contare in quel momento, era se fosse o meno immerso nel buio di una stanza.

Percepiva istintivamente la freddezza delle nudi pareti di acciaio, mentre il tavolo su cui poggiava i gomiti, in legno sintetico magistralmente lavorato, lo lasciava indifferente. Il soffitto di nero metallo vivente era uno spettacolare ribollire di gorghi e vortici sinuosi, generati dalla percezione catalizzante delle emozioni provate da quello che in quel momento doveva essere l’unico essere vivente presente nel locale. Sul tavolo, spoglio e asettico, poggiava un piatto di plastica bianca. Un tozzo pomodoro dall’intenso color rubino se ne stava immobile e solitario, lasciandosi contemplare.

Quello era il giorno stabilito.

Ciò che stavano per fare andava al di là di ogni possibile questione etica o morale. Non aveva dubbi sul fatto che la ragione fosse dalla loro: la storia gli avrebbe reso giustizia. Com’era d’altronde possibile che qualche migliaio di persone, sparse per tutto il mondo, pronte a quell’immane sacrificio, potesse anche solo lontanamente fallire lasciando così che il resto dell’umanità perseverasse stoicamente e ciecamente nell’errore? Si sorprese accorgendosi di come un dubbio che lo aveva assalito qualche anno prima, quando aveva abbracciato la causa, si fosse assopito per poi ripresentarsi in tutto il suo contradditorio splendore proprio nel giorno della grande prova.
Guardò fugacemente in un angolo alla sua destra: il globo luminoso era spento. Non emanava la sua consueta soffusa ed ipnotica luce azzurrognola, come in tutte le altre cellule abitative, dove invece, in quel preciso momento, altri globi vagavano per gli ambienti rischiarando mestamente gli anfratti più bui, come lucciole cibernetiche assetate di oscurità. Il globo sembrava addormentato, pronto a non accendersi mai più e disposto come tutti loro ad immolarsi per una causa superiore: si sarebbe ricoperto di polvere e molto semplicemente, senza che nessuno si degnasse di cercarne il motivo, sarebbe rimasto lì per sempre, inoperoso e inutilizzato. Anche per lui e gli altri “disturbatori della quiete pubblica” ci sarebbe stata tanta indifferenza? No. Non questa volta. E anche il globo luminoso avrebbe avuto il suo momento di gloria: l’aveva sabotato. Appena gli Agenti del Sindacato fossero arrivati per prenderlo in consegna, si sarebbe attivato segnalandogli il loro arrivo, così da permettergli di portare a termine la missione. Non dubitava che sarebbero arrivati presto e sogghignò compiaciuto scorgendo nella penombra il braccio sinistro che da qualche minuto aveva smesso di sanguinare. Chissà che espediente e che accorgimenti avevano preso gli altri suoi compagni per sincronizzare l’operazione? Non doveva mancare molto, ormai. Era più che certo che in meno di un’ ora tutto si sarebbe concluso rapidamente.

Si era volutamente estirpato il chip di controllo che veniva imposto fin dalla nascita dal Sindacato. Forse quell’azione era stata la più dura da portare a termine: era stato difficile decidere per un’azione tanto irrazionale e violenta, pur immaginando il dolore che ne avrebbe provato, la spossatezza psicologica che ne sarebbe derivata. Fare del male a se stesso, al proprio corpo, era così… così blasfemo, così immorale! Eppure, assolutamente necessario e indispensabile. Fu poi curioso scoprire come il proprio sangue potesse avere un odore così intenso ed un sapore così metallico e dolciastro. Queste erano le poche sensazioni che avrebbe condiviso con gli altri: il sangue versato e l’intimo dolore della propria carne straziata, il grido silenzioso e inascoltato nella spasmodica ricerca di un compromesso che potesse portare prosperità e ridare un futuro.

Inspirò a fondo.

Espirò a lungo.

In certe situazioni il tempo faceva i capricci e non scorreva come doveva. L’attesa diveniva insopportabile e insostenibile. Strinse con forza i folti ricci che aveva in testa. Strizzò appena gli occhi quando, per una contrazione dei muscoli, il braccio ferito gli ricordò l’offesa precedentemente ricevuta. L’occhio gli cadde nuovamente verso l’angolo dove, come lui, il globo luminoso era in struggente attesa. Quasi sperò che entrasse in funzione, così da porre fine a tutto quanto, subito. La fine… Di tutto quanto...

Il più semplice dei gesti, anche se sconsiderato agli occhi dei benpensanti, poteva portare a tutto questo? Notevole il fatto che per un nuovo inizio, una nuova era, ci volesse per forza una fine, la disfatta totale. Il loro Movimento, con quel gesto di protesta, si sarebbe automaticamente e deliberatamente auto soppresso. PUFF. Come se non fossero mai esistiti. Non avevano mai fatto nulla di eclatante, come certi gruppi estremisti che avevano lottato per salvaguardare i diritti degli automi; o quelli che avevano ottenuto l’aumento di un’ora settimanale per il concepimento libero. Quelli sì che erano stati grandiosi! Ma stavolta era tutta un’altra storia.

Il loro gesto e la loro conseguente dipartita avrebbe intaccato addirittura il sistema economico mondiale! Le multinazionali, i grandi mercati, la moneta unica: tutto sarebbe crollato e dal caos sarebbe sorto un nuovo ordine. Certo, la popolazione si sarebbe ridotta drasticamente, quasi della metà. Ma così facendo, almeno, ci sarebbe stato più spazio per i pochi meritevoli che aprendo gli occhi e la coscienza, non sarebbero stati inermi di fronte allo sfacelo generale. L’idea di spazio che poteva significare libertà lo fece sorridere. Era un po’ come tornare a tempi pioneristici ormai dimenticati: l’uomo sarebbe tornato padrone di sé, pienamente consapevole e responsabile. Vivere più a lungo non sarebbe più stato il desiderio ultimo dell’uomo medio. Il sogno sarebbe diventato vivere meglio e godere appieno di ogni giorno.

Soddisfatto di questo lungo ragionamento, scattò quasi sorpreso quando vide diffuso per la stanza il sospirato bagliore azzurro. L’illuminazione a giorno del globo luminoso quasi lo infastidì. Guardandosi attorno notò sconsolato come davvero la sua stanza fosse così impersonale e fredda, asettica. Percepì movimenti furtivi all’esterno. Trovò disdicevole andarsene senza aver potuto fare una qualunque cosa per l’ultima volta. Si sentiva un condannato a morte, anzi, un martire! Tanti martiri pronti ad immolarsi per i propri fratelli! Ecco cos’erano, cosa dovevano diventare! Sorrise nuovamente. Guardò compiaciuto il rigoglioso pomodoro nel piattino di plastica. Basta con l’alimentazione sintetica, i derivati, gli integratori, i controlli periodici dei valori fisiologici. Oggi avrebbero commesso il più grave dei reati: nutrirsi di cibo raccolto dai campi inselvatichiti della Zona Esterna.

Nel suo caso era stato scelto un ortaggio al giusto punto di maturazione: sodo, gagliardo nel suo colore sgargiante, sicuramente succoso e privo di conservanti o altre strane sostanze nocive. Lo prese in mano, saggiandone la morbida ma decisa consistenza. Era curioso di sapere quale fosse il gusto di un pomodoro vero! Chissà in quanti come lui avevano scelto un ortaggio o un frutto. Di sicuro pochissimi avevano optato per la carne di qualche animale selvatico: non avevano l’esperienza necessaria e nemmeno le capacità richieste per la cattura di una qualunque preda. Il rumore all’esterno si fece sempre più insistente. Nessuno gli intimò la resa o lo mise in guardia dalla rappresaglia ormai prossima: la pena per ciò che stava per fare, alimentazione tramite sostanze biologiche naturali non autorizzate, era la soppressione immediata. Accantonò il pensiero e sorrise nuovamente per la surreale immagine che gli si formò nella mente: lui che addentava, gli agenti della sicurezza pubblica che facevano irruzione sparandogli, riducendolo a brandelli. Non si sarebbe potuto capire dove finiva il sangue e dove invece cominciava il succo di pomodoro. Sarebbe morto affogato in un mare rosso…

Strinse con un po’ più di forza il pomodoro, decidendosi finalmente ad addentarlo. Mentre se lo portava alla bocca non si accorse che l’ortaggio ebbe un breve sussulto, quasi di ribellione. Si udirono gli spari: sordi, implacabili…
+Estratto dal Servizio serale del TGU (Tele Giornale Unico)+

Ore 19:55:58 del 78°Ciclo Solare – Terzo Pianeta del Sistema

… un massacro. Secondo fonti attendibili, alcuni facinorosi, dediti alla violenza e ad ogni forma sovversiva punibile con l’immediata soppressione, sono stati giustiziati come monito per tutti coloro che in futuro avessero anche solo lontanamente la voglia di concepire simili atti intollerabili nei confronti della società. Il Magister Maximus sottolinea come tali gesti di incivile convivenza tra esseri umani sia totalmente deprecabile. Nel suo intervento, il pensiero guida che dovrebbe illuminarci è risultato chiaro ed inequivocabile. Ne viene riportato fedelmente il concetto, tramite proiezione olografica tridimensionale:

“La Legge è fatta per essere rispettata. La Legge è giusta. C’era un tempo in cui non essendoci la scrittura tutto ciò che concerneva la giustizia era riassunta in un numero di dettami talmente limitato, che chiunque poteva tranquillamente rammentarli. Chi sbagliava sapeva quale sarebbe stata la conseguenza, la punizione. Chi sbagliava, nello stesso istante in cui commetteva l’errore, sapeva che sarebbe stato giudicato e condannato. Tutti potevano riconoscere la colpa; tutti sapevano come si doveva intervenire. Ma col tempo ciò portò ad una diffusa prevaricazione. Chiunque si sentiva autorizzato ad emettere una sentenza e ad eseguirla, credendo di essere nel giusto. Ma Io vi assicuro che il giusto sa che non può e non deve permettersi di andare oltre. La Legge non va interpretata. Ed è per questo che la Legge stessa si è moltiplicata: non per confondere o indurre nell’errore, ma per portare chiarezza e precisione. Non per spodestare la razionalità umana del singolo, ma per dar voce alla rettitudine della massa. Ora vi chiedo: sapendo che c’è chi per voi dedica tutta la sua vita esclusivamente per il bene supremo della collettività, non vi sentite più sereni, più tranquilli? Non provate un sottile piacere potendovi dedicare senza affanni ad un godimento meritato della vostra precaria quotidianità? Uso parole forti, ma so che vi rendete conto di come solo chi amministra in vece del Popolo la Giustizia Superiore possa godere della longevità in eternum. Qualcuno penserà ad un privilegio discutibile, qualcuno concorderà invece con la necessità e la consapevolezza che per mantenere l’ordine e la pace ci voglia tempo e integrità di spirito. E per rendere possibile tutto ciò, si chiede solo di confidare in chi sacrifica il proprio tempo, la propria vita, ad una simile causa. Il sentiero è tracciato, basta scorgerlo e continuare a percorrerlo nonostante le foglie che potrebbero ricoprirlo. Vi esorto tutti, indistintamente, a riflettere su quanto, insieme, possiamo fare per il nostro presente ed il futuro dei nostri figli. AVE”

Si pregano i gentili ascoltatori di recarsi, nel giorno della Comune Redenzione, alla Basilica del Magister Maximus con una generosa offerta, congrua al proprio status e con l’Equilibratore perfettamente calibrato per l’evento. Non sarà tollerata nessuna forma di manifestazione o associazione, seppur spontanea, se non precedentemente concordata con la Segreteria del Sindacato. Vi auguriamo un Buon proseguimento di serata in compagnia della RU (Rete Unica).

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giovedì 1 aprile 2010

IL RISVEGLIO DEL DRAGO


Le Leggende raccontano che quando
Il Drago Ràgon si destava ad Oriente,
Il Drago Iron ruggiva ad Occidente…
- da “Il Sentiero dei Draghi”,
traduz. del Sommo Raphael -


Il profumo dell’erba bagnata dalla rugiada. L’odore salmastro della salsedine e lo sciabordio dell’acqua che imperterrita s’infrangeva sugli scogli, protesi al cielo e irti come denti aguzzi. La brezza che gli scompigliava la folta chioma e l’aria pungente che gli schiaffeggiava il volto. Il richiamo lontano di qualche gabbiano che si era risvegliato con le prime luci del sole. Per tutto questo Arens era fuggito dalla Torre degli Antichi? Aveva il fiatone, era in affanno, correva a velocità sostenuta da ore e nonostante la sua ipertrofica muscolatura alterata geneticamente dalla Tecnologia Templare del Nuovo Ordine di San Tommaso, cominciava ad essere affaticato. Aveva percorso centinaia di chilometri divorandoli come neanche il più poderoso dei cavalli da guerra del Principato di Dor o del Ducato di Bash avrebbe potuto fare; aveva attraversato in una sola notte il Bosco del Guerriero, quella che un tempo era chiamata foresta delle Amazzoni, nella dimenticata America del Sud, e poi scalato con furore la Lingua del Gigante, a mani nude, sempre pervaso dal fuoco ardente della necessità di dover adempiere alla propria missione. Completamente nudo, madido di suore, decise finalmente di concedersi una pausa.
I suoi quattro polmoni funzionavano a pieno ritmo, filtrando ed intervenendo a livello molecolare sull’aria inspirata, mentre la sua epidermide, coriacea quanto quella di un rinoceronte, manteneva inalterato il suo equilibrio biofisico a livello di temperature e funzioni vitali. Per lunghi periodi non avrebbe avuto bisogno di nutrirsi con cibi o bevande convenzionali, da qualunque cosa avesse ingerito avrebbe assimilato gli elementi essenziali utili alla sua sopravvivenza. Le connessioni cibernetiche visibili sul suo corpo, utili all’interazione con le armature da combattimento, in quel momento servivano solo a ricordargli ciò che era e sarebbe sempre stato: un soldato della fede.
E in quanto tale, conscio di non poter sognare o avere visioni di alcun genere, possedeva quella certezza e soprattutto quella consapevolezza che ai suoi inseguitori mancavano: non avrebbe fallito. Infatti, le immagini che riusciva a richiamare alla mente dalla sua memoria non potevano che essere ricordi di esperienze passate che aveva ormai semplicemente dimenticato, oppure elaborazioni personali di eventi che volevano contribuire ad accrescere il suo bagaglio di conoscenze. Da pragmatico soldato qual era non avrebbe cercato in alcun modo di interpretare quelle che per lui erano da considerare semplicemente per ciò che rappresentavano chiaramente: informazioni. Preziose informazioni da collegare tra loro per conseguire il suo scopo. Ma se era davvero così, perché si era svegliato nel cuore della notte certo di dover portare a termine un importante compito, tanto che senza pensarci su troppo, completamente nudo e impossessatosi dell’Artiglio del Drago, si era messo a correre a perdifiato verso una meta al momento ancora ignota?
Il cielo, nero e cupo fino a qualche attimo prima, ora lasciava il posto all’alba di un nuovo giorno. Contemplare il sole nascente che alle sue spalle stava sorgendo, per un attimo lo commosse. L’ipersonno lo aveva tenuto lontano da tutto ciò per troppo tempo. Nella capsula di sospensione vitale aveva appreso della guerra che stava per scoppiare tra il Principato di Dor e il Ducato di Bash, dei coinvolgimenti dell’Impero, Esperia, e dei sotterfugi degli altri regni. Scosse tristemente la testa. La battaglia contro i Grandi Soldati nella Fossa dei Re, il sacrificio di migliaia di persone, vite umane offerte alla causa suprema, la salvezza di molti sacrificando la vita di pochi. Possibile che gli uomini avevano dimenticato così in fretta tutto quanto? Non avevano imparato nulla?
I suoi pugni si contrassero, tanto che le nocche sbiancarono. C’era ancora bisogno di gente come lui. Guardò verso ovest, verso il mare nero e il cielo nero che ancora per poco si sarebbero abbracciati in quell’oscura morsa di gelo e ombre. Il sole avrebbe presto compiuto il suo miracolo quotidiano. Con la nuova luminosità che sopraggiungeva riuscì a scorgere la scalinata che gli avrebbe donato la libertà. I gradini, scolpiti direttamente nella dura pietra della montagna, ancora non si sapeva da chi ed in quale epoca, conducevano all’unico porto naturale sfruttabile della costa, tra le insenature della baia sottostante; costa che era addirittura impraticabile per ben un centinaio di chilometri.
I suoi inseguitori non sarebbero arrivati fin lì: non sarebbero giunti a tanto. Alla Torre degli Antichi uno dei principi cardine era il non rivelarsi al resto dell’umanità. Gli uomini non dovevano sapere della loro esistenza, per questo lo avrebbero lasciato in balia del suo destino, sperando che perisse, come altri prima di lui; lo avrebbero lasciato alla mercé di un mondo considerato inospitale con la certezza che non avrebbe incontrato anima viva con cui interagire. Che errore…
Arens trasse un altro profondo respiro, e senza un motivo apparente sfoderò l’Artiglio del Drago. Che splendida arma. Un uomo normale avrebbe fatto fatica se non addirittura trovato impossibile impugnare quella spada a due mani. Lui che faceva parte della gloriosa squadra d’assalto “Mare di Sangue” la brandiva con orgoglio impugnandola con la sola mano destra, non senza qualche difficoltà. La lama, tagliente e letale su entrambi i lati, era larga come una sua spanna, poco più di trenta centimetri. Lunga quasi quanto lui era alto, con i suoi centosettanta centimetri di puro acciaio vivo e mortale, era di uno scuro metallo brunito. L’elsa, finemente lavorata, raffigurava la nerboruta zampa di un drago blu e portava incastonato l’occhio dormiente di una di quelle nobili creature. Ecco cosa lo aveva rattristato più di tutto: venire a conoscenza dell’estinzione dei draghi volanti. Che perdita…
Guardando in basso, verso l’unica radura visibile dalla posizione che aveva raggiunto, radura da cui aveva avuto inizio la sua scalata di quella montagna rocciosa, la Lingua del Gigante, non vide nessuno. Era rimasto in contemplazione e assorbito dai propri pensieri per parecchio tempo, eppure non si vedeva ancora alcun inseguitore. Possibile che avevano già desistito dall’idea di catturarlo? Non gli avevano messo alle calcagna i suoi ora ex compagni di reparto, dei professionisti come lui: trovava disdicevole un simile atteggiamento. Li aveva sopravvalutati, o forse, addirittura, loro avevano sottovalutato lui! Non sapevano che anche se appena ridestato dall’ipersonno, le sue facoltà superiori sarebbero state da subito operative? Lo assalì un dubbio. Non aveva verificato quanto tempo aveva trascorso nella capsula. Poteva essere che gli addetti al processo di “riattivazione” fossero degli inetti non a conoscenza di chi si era ridestato? Un’altra mancanza nel sistema che poteva nuocere gravemente all’intera società costituita della Torre!
Un senso di rabbia lo assalì! Era considerato un traditore a priori, senza neppure tenere in considerazione il perché delle sue azioni, il motivo della sua fuga. Che poi era tale per loro, non di certo per lui. Sì, aveva trafugato Artiglio del Drago con la forza, ma a tempo debito avrebbe volentieri e sicuramente pagato per tale azione: trafugare una reliquia simbolo per la sua gente, anzi, La Reliquia, gli sarebbe costato caro. Ma qualunque punizione non l’avrebbe mai devastato quanto l’incancellabile senso di vergogna che ora provava per l’azione stessa che aveva commesso! Ma il punto era un altro: non era fuggito come un ladro! Una voce lo aveva destato, in anticipo sui tempi programmati, e dentro di sé sentiva che ciò che stava facendo era giusto. La sua pareva una fuga solo perché vi erano degli inseguitori, altrimenti, in una diversa situazione, sarebbe stata semplicemente un’altra delle tante operazioni a cui spesso aveva preso parte.
Con tutti quei pensieri per la testa, un nuovo giorno era ormai cominciato. L’aria era ancora frizzante per via della vicinanza col mare. Arens guardò nuovamente verso l’immensa distesa d’acqua, poi verso il sole brillante che per un attimo gli abbagliò la vista. Si coprì gli occhi con la mano libera, ma non fu un gesto da persona infastidita: il tepore che percepiva lo rianimava e gli dava un tale senso di pace… Nella radura sottostante non appariva ancora nessuno. Strinse l’impugnatura di Artiglio del Drago. Lo colse un capogiro, uno sbandamento che lo costrinse ad inginocchiarsi mentre ancora stringeva lo spadone con una mano, cercando di sorreggersi. Avvenne l’impensabile…
Riaprì gli occhi che aveva momentaneamente chiuso per riprendersi, scuotendo leggermente il capo e… quale sorpresa! Il cielo era di un blu intenso, perfettamente limpido, crudele nella sua totale e perfetta nitidezza. Tutto intorno a lui era un tripudio di verde e roccia.. Il verde di immensi prati rigogliosi e brillanti; soffice e fresca, l’erba, tra i suoi piedi nudi, oscillava allegramente sotto la spinta di un forte vento freddo. Le rocce che vedeva attorno, in alcuni punti sparse alla rinfusa e in altri ordinatamente impilate, infelici nel loro triste e monotono grigiore, si stagliavano all’orizzonte all’infinito, o almeno così gli parve, tale era la vastità del sito. Capì subito che si trovava tra i resti di una qualche immensa costruzione o città, trascurata e lasciata a morire sotto i colpi implacabili degli agenti atmosferici, ma non riuscì a capire da quanto regnava quello stato di abbandono, e sentiva di non avere il lasso di tempo indispensabile per studiare meglio la situazione. Si rialzò, rinfoderò Artiglio del Drago, e guardandosi attorno ricordò vagamente di essere già stato in un luogo simile, ma non ricordava dove e quando.
S’incamminò senza una meta precisa. Non avvertiva nessun pericolo e comunque, dopo gli infausti Tempi Remoti dell’Oscuro, niente avrebbe potuto intimidirlo. Regnava un silenzio insolito, si udiva solo il sibilare del vento che gli urlava nelle orecchie. Ancor meno di prima avvertiva un qualche cambiamento nella temperatura esterna; non era assolutamente concepibile come qualcuno o qualcosa gli si potesse avvicinare senza essere visto da lontano.
Il passo era deciso, il panorama monotono e insignificante. Non perse tempo a cercare tracce di nessun genere. Sapeva solo che doveva continuare ad avanzare.

Camminò per ore.

Ad un certo punto si fermò, perplesso. Si guardò nuovamente attorno, con quel modo di fare che poteva sembrare di superficialità, ma in realtà nascondeva una percezione dello spazio e del tempo fuori dal comune. Un’analisi veloce lo fece pervenire ad una semplice conclusione. Era già passato di lì. Ed anche più di una volta! Qualcosa aveva interferito alterando le sue capacità sensoriali.
Nonostante avesse mantenuto una direzione lineare e diritta stava girando in tondo. Il vento continuava imperterrito a soffiare nella stessa direzione; le rocce ammassate disordinatamente o compattate in pareti semidistrutte, in alcuni punti piene di crepe o franate, erano tutte uguali e si ripetevano con sinistra precisione. Guardò contro vento, strizzando gli occhi per il fastidio dovuto alle folate d’aria gelida; guardò nella direzione opposta, coi lunghi capelli che si scompigliarono. Artiglio del Drago ebbe un sussulto.
Arens non si spaventò, ma rimase ulteriormente impressionato. Aveva sentito raccontare in più di un’occasione, soprattutto nelle locande e nelle taverne, di come fosse possibile che Artiglio del Drago possedesse una vita proprio, e per via delle sue personali esperienze passate non aveva mai screditato neppure per un attimo tali affermazioni, ma aveva sempre tenuto per sé qualunque considerazione. Ne aveva viste troppe per non credere possibile una simile eventualità. Il tremore che aveva percepito nell’arma che portava a tracolla, quindi, non lo sorprese, ma gli confermò ulteriormente come fosse giusta la scelta che istintivamente aveva fatto il giorno prima. Trafugare quella reliquia aveva un suo perché. C’era un perché per tutto quanto, e alla fine, ogni cosa si sarebbe conclusa con un nuovo inizio, ogni domanda avrebbe avuto una risposta. Doveva trattarsi dell’ennesimo cerchio che si chiudeva per poi continuare con la genesi di un ciclo di eventi, ripetitivo e interminabile: senza sosta, senza fine; senza tregua?
Si accovacciò, sedendosi sui talloni. Non aveva effettivamente bisogno di riposare o di riflettere ulteriormente su quanto accadeva, però sentiva la viscerale necessità di prendersela comoda. L’urgenza che l’aveva divorato fino a qualche istante prima ora era venuta meno. Era ad un passo dallo scoprire qualcosa, qualcosa che… si alzò di scatto, sempre con le spalle rivolte al vento incessante. E come se fosse quest’ultimo a spingerlo, a spronarlo, s’incamminò nuovamente.
Pur essendo particolarmente calmo e rilassato, come se fosse giunto ad una nuova personale consapevolezza, era curioso e insolito camminare con quell’aria gelida che quasi lo incalzava e gli urlava nelle orecchie. Tutti i suoi sensi erano all’erta e iperattivi. Sentiva che stava per accadere qualcosa e voleva essere pronto a tutto.
Non si era rimesso in marcia da molto quando scorse in lontananza un’indefinita macchiolina nera. Di cosa poteva trattarsi? Accelerò la propria andatura. La distanza da percorrere doveva essere non indifferente: lo dedusse dal fatto che per notare quel fenomeno aveva dovuto sfruttare al massimo le sue già notevoli capacità visive. Rimpianse di non aver preso con se tutta l’attrezzatura standard in dotazione, ma nello stesso istante realizzò come così facendo aveva di sicuro aumentato le sue probabilità di riuscita. Come in un’equazione matematica, l’avere meno distrazioni gli aveva dato più velocità.
Quando si accorse che stava nuovamente correndo, considerò l’evento come l’insignificante conseguenza di una ovvia reazione alle circostanze. Era nuovamente in azione. Artiglio del Drago sussultò ancora sulle sue poderose spalle, ed Arens aumentò ulteriormente l’andatura. Mentre si avvicinava al suo obiettivo, solo in un secondo tempo si rese conto dell’incredibile fenomeno che stava avvenendo. Intorno a lui, in un crescente rombare di pietre che rotolavano e saltavano come pesci impazziti in uno stagno, edifici, muri, fabbricati, case, pozzi, tutto si stava ricomponendo ritrovando la propria forma originale. Le pietre tornavano ad essere mattoni solidi, i mattoni tornavano a dare consistenza a pareti e muri. Un’intera città stava riemergendo dalle rovine che prima dominavano l’intera pianura. Sotto i suoi occhi, il grigio della “civiltà” stava nuovamente prendendo il sopravvento sul verde lussureggiante di prima.
Finalmente, mentre la sua folle e furiosa corsa sembrava non dovesse avere mai fine, cominciò a scorgere e ad identificare l’oggetto che aveva catturato la sua attenzione. Non una cosa, ma un individuo. Un energumeno grosso quanto lui, con addosso l’armatura da combattimento potenziata, se ne stava ritto in uno spazio rialzato ma leggermene concavo. Lì, l’erba non era cresciuta; sabbia bianca mista a terra ricopriva lo spiazzo, ogni tanto danzando in qualche mulinello d’aria improvvisato. Completamente pelato, con una lunga treccia legata da diversi anelli di grezza fattura, il soldato contemplava immobile un’imprecisata direzione, con lo sguardo perso e vacuo. Farfugliava incomprensibili parole, borbottando e ogni tanto alzando il tono della voce, quasi in una supplicante preghiera, accorata e disperata allo stesso tempo. Davanti a lui, conficcato nel terreno… IMPOSSIBILE! Artiglio del Drago era lì, memento alla distruzione a venire e lapide d’acciaio! Arens si trattenne dall’impugnare l’arma che portava sulle spalle: era certo che si trovasse dove effettivamente doveva essere! Coi muscoli contratti, quasi digrignando i denti, si avvicinò ulteriormente, stando però attento a non entrare nel raggio d’azione del misterioso personaggio. La litania sembrava ricominciata ancora una volta, sempre più intensa.
Doveva ammetterlo: era affascinato da quell’individuo. Il volto rugoso e raggrinzito, tanto da sembrare carta straccia, visto da vicino, gli conferivano un’aura di saggezza e nobiltà che pretendevano tutto il suo rispetto. Immaginò si trattasse di un veterano. Anche l’armatura, seppur in buono stato, recava visibili i segni di offese subite in battaglia e aggiustamenti grezzi e artigianali: chissà per quanto tempo aveva dovuto ripararla senza gli adeguati supporti. Quando con uno scatto deciso lo vide estrarre dal terreno la pseudo copia di Artiglio del Drago, di riflesso, con un movimento automatico, Arens arretrò e si preparò allo scontro, ma non sfoderò la propria spada, era ancora come in una trance da battaglia.
In risposta, però, tutte le sue ghiandole endocrine primarie cominciarono a secernere la droga da combattimento. Oh, linfa vitale; oh, dolce succo agognato e benedetto che doni la forza! Gli effetti cominciarono a farsi sentire. Nonostante non indossasse la propria armatura, che avrebbe notevolmente amplificato tale stato di estasi, il guerriero prese il sopravvento. Artiglio del Drago venne sfoderato e il soldato si mise in posizione di guardia bassa, con presa a due mani, pronto a colpire. Un unico attacco preciso e letale doveva bastare: un colpo ascendente a frantumare e spaccare, un colpo incrociato di ritorno per tagliare e dilaniare. Morte allo stato puro. Ma il soldato che si trovava innanzi non solo non lo aggredì, non lo degnò neppure di uno sguardo! Pareva rapito in un mondo tutto suo dove non esistevano altro che lui e la sua lirica blasfema. Sempre salmodiando, innalzò al cielo la pesante spada, protendendola come un dito accusatore, poi con un secco movimento circolare la fece ruotare, quindi diede un taglio netto di ritorno, orizzontale, che fendette l’aria. In quel preciso batter di ciglia, Arens ne fu sicuro, il tempo si fermò… Fu come rimanere a lungo in apnea, chiuso in una bolla di sapone che non poteva che portare all’oblio, nella perdizione più assoluta.
Un’immensa lama di luce scura si propagò nello spazio, tutto intorno. Era come se l’aria stessa, o meglio, lo spostamento d’aria che era stato creato, stesse tagliando l’universo intero. Dove la scia di morte giungeva, tutto s’incupiva e ingrigiva. Il vento si fermò all’istante, l’erba si pietrificò, le urla smisero di tormentarlo. Il soldato con la treccia, anch’egli immobile in quell’ultima posa da maestro d’armi, come una statua commemorativa, si era zittito e ansimava, lentamente. Sempre più lentamente finché non smise del tutto. E rimase immobile: per sempre.
Arens rinvenne. Era ancora sulla Lingua del Gigante! Si girò e rigirò più volte, ancora con in pugno Artiglio del Drago, incredulo per quanto aveva visto. Intorno a lui nessuna traccia del veterano portatore di sciagura. Niente città risorta dalle proprie ceneri, niente sconfinata distesa di erba tormentata dall’incessante vento urlante. Niente devastazione totale ad opera di una copia della reliquia trafugata alla Torre degli Antichi. Nella sua mente si insinuò un dubbio: che la voce che lo aveva destato fosse quella di quel soldato ormai perso chissà dove? Oppure era il vento urlante che gridava, ma cosa? Strinse con più forza la spada con entrambe le mani e solo per istinto si soffermò a guardarla con rinnovato interesse. L’occhio dormiente della mitica creatura! Era aperto, spalancato! Sul mondo, su di lui. La palpebra sbatté una, due volte. Poi lo fissò. In lontananza, da qualche parte, un immenso ruggito scosse l’intera montagna…


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LACRIME D'ACCIAIO

L’enorme maglio d’acciaio si liberò dalla terra in cui si era conficcato cigolando ed emettendo un sinistro rumore metallico. Si strinse in un minaccioso pugno con un clangore di metallo che artigliava altro metallo. Uno scudo si accartocciò nella morsa. Del sangue ancora fresco, misto a terra, fango e altri detriti, scivolò via ad un preciso gesto di leggera torsione. La silente e minacciosa figura scura si erse in tutta la sua tenebrosa arroganza, in un eloquente gesto di sfida: tutto intorno, il silenzio.

Un nugolo di frecce squarciò il nero cielo stellato, piovendo all’unisono con un sinistro sibilo ronzante, invisibile e mortale, ma l’impatto col bersaglio designato non avvenne: una giallognola aura luminosa, tenue ma più solida di un’armatura di cuoio, circondava e proteggeva l’implacabile abominio metallico. Non che ne avesse bisogno, ormai era chiaro, niente sembrava scalfirlo; quell’ennesima diavoleria, quella barriera “magica” che lo avvolgeva, pareva più l’ostentazione di un potere superiore che non poteva che far presagire nulla di buono. Sarebbero stati tutti sterminati, dal primo all’ultimo: senza la possibilità di difendersi, senza la capacità di poter reagire in alcun modo. Senza pietà…
Nella notte stellata si faceva fatica a distinguere ciò che circondava l’ombra, più scura delle stesse tenebre in cui era immersa. Il suo unico occhio azzurro, splendido e brillante come la prima e la più luminosa delle stelle apparse, guardò quasi compiaciuto il macabro spettacolo. Ovunque corpi straziati, mutilati, carne ancora sanguinolenta e già putrida; si poteva udire impercettibilmente il lamento agonizzante di qualche sprovveduto, che avrebbe fatto meglio a morire subito per non trasformarsi nel delizioso dessert di quel raccapricciante banchetto.

Né il debole vento che si levò, né l’odore nauseabondo che cercavano di sopraffarlo, infastidirono in alcun modo la macchina di distruzione che implacabile aveva incrociato la strada di quegli strani esseri fatti di pelle, ossa, tendini, carne. Una bandiera garriva placidamente al vento e qualcosa tintinnava con fastidiosa insistenza. Forse un’arma… Quale scherzo della natura sono questi miseri esseri umani? Pure il più insignificante degli insetti possiede un carapace di protezione anziché un inutile esoscheletro interno!
Rimase immobile ancora per qualche istante mentre analizzava la situazione e le curiose creature con cui ultimamente continuava ad imbattersi, senza preoccuparsi minimamente del tempo che inesorabile scorreva, forse l’unico suo degno avversario in quel momento, impossibile da sconfiggere tanto quanto lui; mosse un primo passo avanzando verso il bosco che intravedeva dalla parte opposta. La terra tremava e gemeva la suo passaggio; l’aria si condensava in vapore dal nauseabondo odore marcescente; volute di fumo finissimo volteggiavano spavalde in refoli caldi e miasmatici alle sue spalle. Avanzò lentamente per l’ormai desolata piana erbosa, che da verde brillante e immacolata com’era qualche attimo prima, ora era un mare rosso di sangue e anime perdute. Scostò con noncuranza un albero che gli ostruiva il passaggio, spezzandone il tronco, altrettanto distrattamente scalciò l’inerme corpo dilaniato di un cavallo da guerra che ancora scalciava nel vuoto, triste parodia di una vita che non voleva saperne di smettere di lottare pur avendo già perso in partenza. Cominciò poi a risalire con altrettanta indolenza il leggero pendio di una collinetta brulla e spoglia.
Infinite sequenze matematiche di complessi calcoli gli trasmisero una sensazione di sadico compiacimento: era forse questo strano stato logico quello che gli esseri umani chiamavano “emozione”? La sua Matrice Primaria non era al livello di quella di un Custode, ma in quel preciso istante, un Guardiano del suo livello cosa poteva dedurre? Dopo l’ennesima carneficina perpetrata per conseguire il Disegno Originale, la percezione superiore a cui per un attimo pensava di essere giunto, cosa significava? Ammesso naturalmente che tutto ciò avesse un significato. Era ancora troppo presto per fare un rapporto, anche perché il vero obbiettivo del suo risveglio doveva per forza essere un altro: eliminare ogni forma di vita senziente e non sul pianeta era troppo scontato e palese. Se i Creatori avevano dato vita a Gemini, al Sistema, se avevano donato loro una nuova esistenza e una nuova realtà che oltrepassava ogni più impensabile aspettativa, ebbene, un motivo doveva pur esserci, ma solo il Sommo Eklisse aveva tutte le risposte. Solo il Rinnegato dagli uomini aveva la conoscenza. Solo l’Abominio possedeva la Verità. E la sua venuta era ancora troppo lontana. Quindi, logica conclusione, bisognava continuare ad agire secondo istruzioni fino a nuovo ordine: portare morte e distruzione.

Giunto sulla sommità della collinetta si guardò attorno in cerca di nuovi avversari, se così si potevano definire quelle insulse creaturine, fragili, urlanti e fastidiose come il peggiore dei virus informatici, ma non ne trovò. Una casetta di modeste dimensioni, fatta interamente di pietre di ardesia e col tetto in legno e pagliericcio, dominava il panorama, mentre alle spalle della costruzione s’intravedeva come il terreno declinasse nuovamente in un leggero pendio, fino ad un bosco piuttosto esteso e fitto. Si udiva impercettibilmente, ma non troppo lontano, il gorgoglio di un corso d’acqua e il ritmo incessante della ruota di un mulino che macinava, mentre un approssimativo recinto, grezzo e spartano, circondava la tenuta, non troppo vasta. Un filo di fumo impalpabile fuoriusciva dalla canna fumaria posta al centro del tetto. Nel silenzio ovattato della notte, il frinire delle cicale faceva da macabra colonna sonora. Si avvicinò ulteriormente e si fermò nuovamente sulla soglia della porta, leggermente socchiusa.

La sua mole era tale da sovrastare di un metro abbondante il fatiscente edificio. Era tentato di distruggere tutto con un unico poderoso colpo del suo maglio, ma qualcosa lo fece desistere: curiosità?! Si inginocchiò. Appoggiò lievemente le dita uncinate del suo artiglio metallico e spinse. All’interno, nell’oscurità più assoluta, intravide i resti di un focolare che ormai si stava estinguendo. Non aveva fatto caso all’assenza di finestre o altre aperture nella costruzione, a parte naturalmente alla canna fumaria. Gli scoppiettii della brace che ancora resisteva attirarono la sua attenzione. Il suo unico occhio, come guidato da una volontà propria, si allungò in un viscido e snodato tentacolo che si insinuò all’interno della casetta, immergendosi nel buio. La esplorò completamente, memorizzando ogni dato possibile, registrando la presenza di un tavolo di pietra di media grandezza, un paio di sgabelli di legno dalla dubbia consistenza, un baule pieno di cianfrusaglie, un giaciglio di fieno ed infine, nei pressi del braciere, si fermò per studiare qualcosa d’inaspettato. In un cesto di vimini, avvolto in un panno morbido, una minuscola forma di vita si stava lentamente spegnendo. Faticava a respirare, si muoveva appena; la temperatura basale era bassa, al limite. Da quanto tempo quel cucciolo d’uomo era lì, a combattere solitario quella battaglia, silenziosa e ormai persa? Per quale motivo la natura era così spietata e non poneva fine alle sue sofferenze? Per fortuna del piccolo era arrivato lui, sommo giudice e voce della verità: l’estinzione della vita era un dogma; il perseguimento dell’obbiettivo l’unica possibilità.

Allungò un arto, seguendo lo stesso percorso indicato dal tentacolo oculare. Artigliò il cesto e con inaspettata delicatezza portò fuori dall’edificio il fagotto col neonato, ormai in fin di vita. Sarebbe stato così facile stritolarlo e poi osservare la carne mista a fluidi corporali imbrattargli il maglio. O sarebbe stato più interessante verificare qualche legge della fisica scagliando l’inerme malcapitato il più lontano possibile, con tutta la sua potenza? Fin dove sarebbe riuscito a lanciare quel peso così… inconsistente? Non fece niente di tutto ciò.

Rimase un tempo imprecisato a guardare l’esserino che nella sua tenaglia d’acciaio si ostinava a non morire. Neanche tutti quei soldati affrontati in precedenza avevano mostrato tanta tenacia. Nella sua banca dati aveva vaghe informazioni riguardo la fragilità e la precarietà dell’esistenza umana, che paragonata a quella dei “sintetici” era assolutamente futile e priva di valore. Non trovò nulla però che facesse pensare o anche solo immaginare che una così minuscola creatura, priva di qualunque difesa e possibilità, avesse la forza di “ammaliare” un essere superiore come lui. Che fosse un mutante?! Ma la loro comparsa era prevista solo fra un centinaio di anni, con l’avvento dei viaggi spaziali. Che fosse… un fruscio catturò la sua attenzione. Individuò subito la presenza dei nuovi intrusi. Possibile che si era distratto al punto da non aver prestato attenzione a tutti i segnali d’allarme? La molteplicità delle variabili intervenute avevano alterato la sua percezione spazio-temporale. Anche la “distrazione” che supponeva lo avesse momentaneamente scollegato dalla realtà circostante, indicava la messa in atto di un nuovo protocollo comportamentale fuori da ogni parametro conosciuto.

Mentre una parte del suo cervello elettronico elaborava la strategia migliore d’adottare, l’altra si crogiolava con la continua e astrusa attenzione focalizzata sul fagottino adagiato nel suo maglio. E per quanto riguardava i nuovi assalitori, tutti i sensori avevano dato un unico risultato.

Erano segugi di Traka.
Erano venuti dal Piano Zero. Quale insolenza! Impercettibili scariche elettrostatiche lo pervasero, creando in tutta la sua struttura una strana “sensazione”. E mentre continuava nell’analisi introspettiva della nuova iperbolica situazione che si era venuta a creare, l’arrogante ombra meccanica si era già preparata allo scontro ormai imminente. I segugi erano solo cinque, di grossa taglia, e si stavano aprendo a ventaglio per un attacco a tenaglia. Di solito operavano in branchi più numerosi, erano particolarmente bellicosi ed aggressivi, ma il capo branco ed il guarda muta dovevano sapere il fatto loro.
In quel momento c’erano solo le cinque bestie fameliche, con quel loro aspetto che ricordava l’incrocio mal riuscito tra viscidi serpenti e grossi cani. Il capo branco era sicuramente il più grosso, mentre probabilmente, chissà dove, il guarda muta era nascosto e si godeva tutta la scena a debita distanza. Avevano zampe sottili che parevano dure come acciaio e corpo smunto ma nerboruto. La testa era particolarmente appuntita e culminava in un lungo becco adunco e terribilmente aguzzo. Nell’oscurità gli occhi privi di pupille sembravano guardarlo con cattiveria e malizia. Come i corpi, erano di un disgustoso color melma, mentre lungo la spina dorsale un’ispida peluria rossiccia spiccava vistosamente, fremente d’eccitazione nell’attesa dello scontro ormai prossimo.
L’unico occhio guardò l’avvicinarsi indolente delle cinque bestie con tutto il suo freddo e meccanico distacco, ma dentro di sé, inaspettato, albergava qualcosa di nuovo. Fosse stato umano – ancora una volta si propose subdolamente questa considerazione – si sarebbe potuto crogiolare in quel “compiacimento”, sarebbe stato in procinto di godere di un appagamento che fino a quel momento non aveva ancora avuto. Aveva sterminato non sapeva più quanti mortali (in realtà il contatore del puntatore di bersagli indicava millenovecentonovantacinque) tutti in un paio di giorni, ma era stato sempre troppo facile, puro allenamento. Le battaglie con gli Evoluti, nel terzo millennio, prima dell’impatto delle Navi di Horus sulla Terra, quelli sì erano scontri memorabili. Tecnologia al servizio dell’uomo che si scontrava con tecnologia che dell’uomo non voleva saperne. Scontri fratricidi senza fine (anche per le macchine si potevano considerare tali?): sangue che imbrattava acciaio, metallo che si contorceva sotto i fuochi dei Purificatori. E ora? I Creatori avevano “erroneamente” dato loro la vita! La loro conoscenza superiore aveva mal interpretato alcuni segnali elettrici confondendoli con segnali vitali! La realtà dei Sintetici era una novità difficile da accettare…

La vita…Chi mi spiegherà in che cosa consiste? Cos’è cambiato? C’è solo, spesso, troppa confusione. Ogni analisi logica viene alterata da “sensazioni” che ancora vanno classificate, equilibrate, forse addirittura estirpate! Operare diventa un sommarsi di variabili con altre variabili in modo… Evitò una zampata, un primo assalto. …esponenziale. Evitò agilmente anche il secondo attacco. Sempre mentre teneva nel maglio destro il fagottino inerme, sempre mentre le sue riflessioni sembravano poterlo far giungere ad una qualche conclusione, ad una verità nascosta, paragonabile a quelle certezze assolute che fino a prima del risveglio erano proprio tali: verità assolute, certezze. Il tutto riassumibile con una sola parola: logica. Logica che si sta perdendo in un oblio senza fine…
L’affermazione interruppe qualcosa a livello circuitale. Mascelle dalla forza spropositata ne approfittarono per conficcarsi nella sua spalla sinistra. Con uno strattone se ne liberò. Con l’artiglio libero afferrò le zampe posteriori della bestiaccia che aveva osato tanto e quasi fosse un gioco che cominciava a dargli noia, la mulinò come una clava: prima a destra, poi a sinistra, ancora e ancora, sbattendola sul terreno erboso, a volte invece cercando di usare l’arma vivente per colpire gli altri assalitori. Lo scontro stava durando più del previsto, ma solo perché il guardiano meccanico non si stava impegnando abbastanza. Una rotazione dell’arto, più improvvisa delle altre, squarciò in due il corpo del segugio che, preso nella morsa, non aveva mai comunque smesso di divincolarsi. Solo una bestia era stata annichilita, costato sfondato, con quell’arma improvvisata.

I tre superstiti gli continuavano a saltare intorno, alternandosi, nel tentativo di azzannarlo o di farlo cadere, ma invano. Improvvisa, una luce accecante si sprigionò e centrò in pieno una delle tre creature, diffondendo all’istante nell’aria un persistente odore di carne bruciata. Un grosso blocco irriconoscibile, nero e duro come roccia, rotolò giù per il pendio erboso, verso il fitto bosco. Memento alla distruzione. Gli altri due segugi continuarono imperterriti nella loro tattica, come se niente fosse. E il verso che emettevano non era assolutamente paragonabile a niente che si potesse udire sul pianeta. Poteva ricordare vagamente il frinire delle cicale, ma era molto più delicato ed ipnotico, in contrasto col loro aspetto e la loro selvaggia ferocia. Nel Piano Zero, chi aveva avuto la sfortuna di udire quel richiamo era finito in una trappola mortale.


L’aver utilizzato un raggio disgregante gettò nello sconforto il gigante d’acciaio. Anche questa era una nuova realtà difficile da accettare. Non avrebbe voluto usare un’arma a distanza contro avversari che non ne possedevano. Non era una questione di onore, orgoglio, spirito cavalleresco o roba simile, quella la lasciava a quegli stolti umani che iniziavano ogni scontro con urla, boria e convinti dei propri mezzi, superbi e arroganti, ma soprattutto “carne da macello”. No, non era tutto questo. Semplicemente, lui godeva del contatto tra il suo duro acciaio temperato e la morbida carne delle sue vittime. Adorava dilaniare, spezzare, stritolare, squarciare. Si sentiva un artista del macello perpetrato per puro divertimento. Che sia questa la “vita”? é questo il dono che ci avete fatto?

In preda ad un topico raptus di follia megalomane non si accorse di aver stretto entrambi i magli, braccia protese al cielo notturno in un gesto di chiaro delirio di onnipotenza! Quando se ne rese conto lo colse un attimo di disorientamento. Evitò in automatico l’ennesimo assalto di un segugio. Al secondo, che cercò di addentarlo ad un braccio, con un pugno potente e preciso spaccò il cranio, dipingendo sul terreno un arazzo di sangue marcescente raffigurante la più astratta delle morti. L’ultimo segugio non tentennò nemmeno per un attimo e lo assalì a sua volta, ma fu afferrato al volo e spezzato in due lungo la spina dorsale, con un unico fluido e letale movimento.
Tornò il silenzio. In una pausa immensamente lunga.

Il cielo era nero. La luna si era nascosta alla vista. Una leggera brezza stava facendo disegnare nell’aria ai fumi che fuoriuscivano dalla canna fumaria della casetta una curiosa danza, silenziosa e soffice, irraggiungibile e incomprensibile: inopportuna. Un enorme maglio d’acciaio si liberò degli ultimi brandelli di carne sanguinolenta di cui si era imbrattato, cigolando ed emettendo il consueto e sinistro rumore metallico. Si strinse in un minaccioso pugno con un clangore di metallo che artigliava altro metallo. Si riaprì. Un singolo e brillante occhio azzurro cercò ed immaginò di focalizzarsi ancora sul fagottino che qualche attimo prima sembrava riprendersi in quel maglio socchiuso. L’artiglio era ancora leggermente caldo per il tepore che aveva sprigionato cercando di andare incontro alle esigenze vitali del piccolo umano. Ma fu solo un attimo. Subito il freddo metallo vivente del Guardiano ristabilì la corretta densità dell’artificiale struttura sintetica.
Riprese a camminare verso il fitto bosco, al di là della casetta, al di là dell’ennesima carneficina perpetrata, al di là di un ricordo ormai archiviato e catalogato che, fosse stato umano, gli avrebbe fatto forse comprendere finalmente cos’era quell’irrazionale stato logico-confusionale in cui si trovava in quel momento. Comprendendo davvero cosa vuol dire essere vivi, forse avrebbe versato le sue prime lacrime d’acciaio…

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